In seguito ad un viaggio in Tibet vorrei condividere con voi le immagini dei templi visitati, assieme a qualche pillola d’arte tibetana. Il post ha il solo obiettivo di stuzzicare la vostra curiosità attraverso le meravigliose immagini dei templi tibetani per poter poi meglio approfondire una cultura decisamente affascinante, complessa e dai fragili equilibri, considerando l’attuale situazione del Paese, annesso alla Cina.
Il Tibet è la dolcezza del suo popolo, il sorriso che ne illumina il volto bruciato dal sole, la povertà che insegna la condivisione, la gentilezza dell’animo aperto a chi vuole conoscerne la cultura e le sue sfumature … la forza della fede che porta pellegrini di tutte le età a mettersi in cammino per raggiungere templi nascosti tra le più impervie montagne.
Il Tibet è il suo territorio impervio, brullo, immenso. I suoi laghi dai colori cristallini, i suoi cieli limpidi, di un blu che non puoi dimenticare.
Il Tibet è i suoi monaci, il suo Dalai Lama, l’anima di un popolo ribelle che non si arrende all’invasore cinese che sta stravolgendo la sua natura, la sua cultura, la sua Bellezza.
Il Tibet è il volto luminoso dei suoi bambini che vivono in villaggi nei luoghi più remoti del pianeta e chissà quale destino tesserà le fila delle loro esistenze.
Quei bambini e quel popolo che dal Tibet non possono fuggire … confinati nella loro terra, privi della libertà.
Il Tibet è stato depredato della sua religione, del suo padre spirituale ora confinato in India, della sua libertà.
In Tibet i cinesi stanno costruendo palazzi orribili ovunque senza il minimo rispetto nei confronti di un ecosistema perfetto e fragile.
Solo il centro storico di Lhasa mantiene le sue caratteristiche peculiari per attirare i turisti, sorta di museo a cielo aperto in ricordo di una cultura che sta piano piano scomparendo.
Il popolo tibetano cerca di resistere come può, centinaia di monaci si sono già dati fuoco piuttosto di vivere senza dignità.
Questo è il volto attuale del Tibet, unica memoria i suoi templi, il suo popolo che ancora prega, che ancora resiste.
Un semplice omaggio quindi alla memoria del Tibet, alla sua arte, alla sua Bellezza, al suo profondo sentire religioso.
Anna Mattedi
L’arte tibetana e la sua essenza religiosa è ormai parte integrante del patrimonio mondiale. Secondo la concezione buddhista la realizzazione di un’opera d’arte porta considerevoli meriti sia al committente che all’esecutore, computabili nella somma delle azioni che condizioneranno le loro future esistenze.
Il buddhismo tibetano è il ramo più evoluto del buddhismo tantrico. I tantra sono opere sanscrite in versi. Tantra significa “filo”, “trama” e, per derivazione, “trattato”, “filiazione spirituale” da maestro a discepolo, il che consente la continuità di una tradizione.
L’originalità del buddhismo tantrico sta nella fede di un Buddha “nato da se stesso” che domina tutto il pantheon delle divinità. Colui che medita in cerca del Risveglio dovrà affrontare numerosi ostacoli ma una moltitudine di dei lo aiuterà nel suo avanzamento spirituale. L’aspetto delle divinità sottintende molti significati simbolici e possono assumere un aspetto sereno o irato. L’iconografia del buddhismo tibetano moltiplica le teste e gli arti delle divinità; la rappresentazione del divino deve però sempre attenersi ad uno schema prestabilito, per questo l’artista non ha che uno strettissimo margine di interpretazione.
Il quinto Dalai Lama, somma guida dei gelukpa, grazie alla sua forte personalità e ad un innato senso politico riuscì nel ristabilire la pace sul territorio (1642). Il Grande Quinto, come venne chiamato, fu il vero fondatore della teocrazia lamaica e promosse grandi opere, soprattutto nella regione di Lhasa. Due complessi ricevettero la sua attenzione: il Jokhang ed il Potala.
Il Jokhang, l’antico santuario nel cuore di Lhasa, fu considerevolmente ingrandito con l’aggiunta di un primo grande cortile, di cortili laterali e di numerosi edifici annessi.
Fu fondato da Songtsen Gampo per accogliere la statua del Buddha portata dalla sua sposa nepalese. Nel VIII secolo la cella principale ospitò un secondo idolo, il “prezioso Signore”, portato dalla seconda sposa cinese Wenchen, in occasione del suo matrimonio. La pianta del Jokhang ricorda i monasteri indiani di epoca gupta.
Meravigliosi sono i tetti in rame sbalzato e dorato, della seconda metà del XVII secolo. La qualità delle sculture che adornano i tetti del Jokhang li rende i veri capolavori dell’arte tibetana. Sul tetto del Jokhang si trova la ruota della legge.
Il palazzo-monastero del Potala fu costruito sulla “collina rossa” (Marpori) fuori Lhasa, per la residenza del Dalai (= immensità) Lama. L’immenso complesso, a ovest della città, sorse sulle antiche rovine della dimora della principessa cinese Wencheng, che introdusse il buddhismo in Tibet portando con sè le prime immagini del Buddha (610-649).
Il termine sanscrito “potala” designa la montagna dove dimora Avalokitesvara, le cui incarnazioni sarebbero i Dalai Lama. I lavori iniziarono con il Palazzo Bianco (1645-1648): a ovest del suddetto palazzo, Sanggye Gyatso, reggente dal 1679 al 1705, fece costruire il Palazzo Rosso (1690-1694). Caratteristica la grande sala assembleare occidentale con giganteschi reliquiari che contengono le reliquie dei Dalai Lama. Ai piedi del palazzo una cinta fortificata racchiude il villaggio di Zhol, dove si trovano i numerosi servizi necessari alla vita del monastero-fortezza: magazzini, abitazioni dei religiosi, servizi amministrativi. Corti interne, terrazze, ambienti di rappresentanza e appartamenti privati occupano invece i piani superiori.
Gli edifici religiosi in Tibet sono soggetti a forti vincoli climatici e tecnici. Il legno è raro perciò i capomastri utilizzarono mattoni crudi, impasti di fango, sassi e paglia o pietre assemblate. La rusticità dei materiali li obbligò a fare i muri portanti di spessore proporzionato all’altezza e una base larga, per questo gli edifici hanno un profilo trapezoidale.
Le strutture portanti interne sono in legno; rami secchi di salice o ginepro sostengono l’impermeabilità delle parti alte mentre pavimenti e terrazze sono in terra battuta.
Le costruzioni seguono il dislivello del terreno senza alcuna simmetria. Queste caratteristiche sono comuni a tutta l’area tibetana. Le zone accessibili ai fedeli sono ben separate da quelle riservate alla comunità monastica. I conventi furono costruiti sul versante soleggiato delle montagne. La sobrietà dell’esterno degli edifici religiosi contrasta con lo sfarzo del decoro interno.
I gelukpa (“i virtuosi”) costruirono monasteri immensi ed imponenti. Nel Tibet meridionale va citato Tashilhunpo (1445), presso Shigatse, il cui abate ricevette il titolo di panchen lama. Nel Tibet centrale ricordiamo i complessi di Ganden, Drepung e Sera: ognuna di queste “città monastiche” contava migliaia di monaci ed i collegi universitari annessi erano visitati da religiosi di tutto il mondo lamaico.
A partire dal 1720 fallirono i tre tentativi, ispirati dalla Cina, di instaurare in Tibet un sistema politico laico. Nel 1750 il settimo Dalai Lama riprese il ruolo di sovrano temporale ma sotto stretto controllo cinese. Da questo momento l’arte tibetana non si rinnova più e ripeterà i modelli del passato.
Gyantse, Il sito più grandioso del Tibet meridionale conserva all’interno del recinto sacro il grande stupa, kumbum, dalle mille immagini. Il kumbvum è concepito come un grande mandala: ad ogni livello si aprono cappelle consacrate a diverse divinità. I decori testimoniano un adattamento delle tradizioni nepalesi e cinesi dei Ming (1368-1644) con i quali i sovrani di Gyantse intrattennero legami politici. Malgrado le spoliazioni della Rivoluzioni culturale l’edificio si è conservato relativamente bene.
Tashilhunpo, vicino a Shigaste: nelle gallerie coperte che collegano i vari edifici si trovano migliaia di statuette offerte in ex-voto. Venne costruito un muro ad ovest del monastero per potervi appendere, durante le feste liturgiche, grandi thangka, rotoli dipinti con raffigurazioni delle principali divinità creati accostando frammenti di tessuti, come si faceva nel Potala.