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“Sono costretto a continue trasformazioni. Seguo la natura senza poterla afferrare” questo il mantra di Monet, che in maniera quasi ossessiva ritorna sul tema scelto, le sue amate ninfee, con mille variazioni. Un fiore d’acqua, il prediletto, un fiore sacro per le religioni orientali, osservato dalla sua tenuta presso Giverny, da quello stagno che per lui era diventato una sorta di paradiso terrestre. Le ninfee diventano così la sua preghiera, il suo testamento prima della morte ad ottantasei anni, dopo una fervida stagione creativa. Una meditazione sul tema della natura per tentare di cogliere quello che si rivelerà essere il nulla, il mistero profondo insito in essa, luce pura. Monet en plein-air studia ed osserva il proprio soggetto con l’obiettivo di sondarne il mistero, dandoci una grande lezione di umiltà in quanto l’opera non si esaurisce nel momento in cui viene dipinta, ma spinge l’artista ad andare oltre, ad indagarne l’essenza. Una ricerca estenuante, la sua, alla quale dedica le ultime energie prima di cedere, permettendoci di capire che dietro a quello che vediamo si nasconde ciò che non può essere riprodotto in termini naturalistici ma solo attraverso gli occhi dell’anima. Monet quale precursore dell’arte astratta, dove il dato reale, il limite della linea dettata dal disegno si liquefa, diventando un tutt’uno con la superficie vibrante dell’acqua, facendosi indefinito, smaterializzandosi, diventando evanescente.
“La bellezza è sotto i nostri occhi, nel presente” affermava il critico Castagnary nel 1867. E proprio quell’universo di incommensurabile bellezza Monet cristallizzerà sulle sue tele, con spontaneità viva, catturando l’effetto istantaneo della luce e traducendo quella poetica dell’istante e dell’immediatezza che caratterizzerà il movimento Impressionista.

Anna Mattedi

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