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Il combattimento cruento tra animali e belve, nelle opere di Ligabue, diventa una sorta di ossessione che lo accompagnerà per tutta la vita.
Un modo per esorcizzare il suo pesante passato di tormenti e tribolazioni.
La sua diventa una vera e propria identificazione con gli animali che risultavano vittime nel violento scontro.
Ogni dipinto di Ligabue è quindi un autoritratto.

Perché l’artista si riconosceva dalla parte della vittima?

La storia personale dell’artista risulta tormentata sin dagli inizi: una disgrazia familiare farà morire la madre ed i tre fratelli.
In seguito alla disgregazione della famiglia d’origine Antonio verrà affidato alla famiglia dei Gobel, in Svizzera. Sin da piccolo presenta un’indole ribelle, a causa anche della sofferenza nel sentirsi sempre definire “il diverso”.
I compagni a scuola non gli risparmiavano crudeltà per via del suo gozzo pronunciato, simbolo di quella diversità che lo segnerà per tutta la vita.
Il patrigno aveva però saputo stimolare la fantasia del piccolo Antonio a quell’interesse nei confronti degli animali, soggetti principali del suo futuro operato. Ma in seguito agli attacchi d’ira sempre più forti ed ai conflitti che lo portarono alla fuga da casa, la madre adottiva, la giovane Elise, decise di mandare il figlio a Gualtieri, in Emilia.

Un secondo abbandono vissuto dal giovane Antonio che ora era costretto a vivere in un ospizio di mendicità.
Presto avrebbe dovuto inserirsi in altri ghetti come quello dell’ospedale psichiatrico dove solo attraverso la pittura, unico mezzo di comunicazione dell’artista, trovava finalmente appagamento e un poco di serenità. Il disegno si presentava ad Antonio come un vero processo terapeutico.
Nelle sue tele sapeva creare un forte sentimento di tensione, concentrandosi sul momento del duello selvaggio tra le belve al limite estremo tra vita e morte, tra carnefice e vittima. Quella stessa vita crudele che ha sperimentato la sua anima tormentata.

Quando nasce la leggenda di Ligabue?

E sarà nella fuga di una vita nomade a contatto con la natura, sulle rive del Po, che Ligabue troverà finalmente pace.
“L’ho incontrato per la prima volta nel bosco dove viveva. Non è stato facile avvicinarlo. La gente lo terrorizzava” affermerà Mazzacurati nel 1928, il suo scopritore, colui che darà il via alla sua leggenda, che rivede in lui il mito del buon selvaggio di Rousseau, attribuendo alle sue tele l’etichetta di primitivismo con il quale venne reso noto.
Scultore, pittore e uomo di cultura Mazzacurati rimase affascinato dal talento di Ligabue e deciderà di invitarlo a lavorare nel suo studio.

L’artista vivrà così la sua età dell’oro, aveva trovato finalmente un rifugio, qualcuno che credeva in lui, qualcuno che lo considerava un pittore e non più il diverso. Fu così che un importante sodalizio artistico ebbe inizio. Iniziò a crescere in Antonio una coscienza d’artista che lo portò a firmare i suoi quadri con il suo nome d’arte Ligabue, staccandosi dal cognome del padre adottivo Laccabue. Una nuova vita fatta di ritmi quotidiani, abitudini, punti di riferimento sociali, comprensione e generosità attendeva l’artista. Una nuova rinascita.

La sua arte esprime il potere dei simboli, attraverso i quali la nevrosi ed il male di vivere sono diventati normalità. L’artista attraverso il combattimento evoca antiche paure che sfoga con urgenza liberatoria. La leggenda di Toni “el mat”, “el pitor”, ha inizio quando la gente capisce che l’artista non è uno di loro, la gente si sente rassicurata dalla sua vita stramba, prova della loro normalità.

Quale l’originalità della sua opera?

L’originalità della sua opera consiste nel non possedere un bagaglio culturale, nel suo non sapere. Una condizione di innocenza, di ingenuità, dove tutti possono diventare artisti. Pochi intellettuali hanno deciso di schierarsi a favore di un’arte ispirata al mondo dei non-acculturati, al mondo infantile, a quello dei malati mentali. Il grande nemico da combattere era quindi l’asfissiante cultura.
Il primo a credere in questi nuovi ideali a favore di un’arte democratica fu Dubuffet, artista informale creatore della cosidetta Art Brut.

Nei suoi saggi Dubuffet afferma che gli artisti promotori dell’arte ufficiale ed accademica non fanno altro che mortificare le energie primarie. È giunto il momento di rimuovere i pregiudizi, di riattivare e liberare le energie primigenie. Ma come? Creando gli istituti di decultura voluti da Dubuffet, dove gli insegnanti tengono corsi di decondizionamento, mettendo in dubbio le idee acquisite fino ad ora. “Tutti sono artisti perché dipingere è come parlare o camminare” affermerà Dubuffet. Scopo dell’arte sarà quello di scrostare strati e strati di abitudini, amplificare il rimosso, rompere quei freni.

Le opere di Ligabue sono quindi un forte richiamo visivo agli interrogativi di Dubuffet: “Non c’è proprio nulla nella vita a cui valga la pena di appassionarsi, al di fuori degli obblighi professionali e dei doveri familiari? Darsi da fare per guadagnare, ammucchiare e risparmiare denaro sarebbe il principio e la fine della condizione umana e tutto il resto follia? Siamo sicuri che la vita sia tutta lì, in quelle impalcature sociali?”. palcature sociali?”.

Le immagini sono state gentilmente concesse dal curatore della mostra di “Antonio Ligabue” presso il Complesso del Vittoriano a Roma, Dott. Sergio Negri.

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